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Intervista a Michael Kenneth Williams

Ci sono ruoli che capitano una volta nella vita, e segnano un’intera carriera. Omar di The Wire è uno di questi. Ma uscire da un personaggio così importante può essere difficile.

Michael Kenneth Williams è noto soprattutto per i personaggi di Omar in The Wire e di Chalky White in Boardwalk Empire, ma è stato anche tra i protagonisti di The Night Of, e da tre stagioni è Leonard in Hap & Leonard, tratto da Joe Lansdale. Lo abbiamo incontrato e Cannes e ci ha parlato a lungo del legame tra la sua vita e la carriera.

Iniziamo dal principio: le case popolari Vanderveer, nel quartiere di East Flatbush a Brooklyn.
Lì ho passato i primi trent’anni della mia vita e, nonostante le cose brutte che sono accadute, non scambierei la mia infanzia per tutto il tè della Cina: ha fatto di me l’uomo che sono oggi, cicatrici incluse (soprattutto interiori). Da noi si diceva che il successo era andarsene e non voltarsi indietro, ma per me è stato tornare a casa, ai tempi di The Wire, quando la gente si diceva fiera di me come rappresentante del quartiere. Da ragazzo non ero un gangster. Mia madre era quella dura, di origini caraibiche: c’erano cose che non tollerava. Non ero molto popolare, neppure con le ragazze, non ero alfa. Usavo le droghe per sentirmi parte del gruppo ma non le vendevo, e capitava che gli altri se la prendessero con me. Ero un po’ un bersaglio.

“The Wire era corale, non c’erano personaggi che emergevano sugli altri. Per dirla con Simon, “tutti i pezzi sono importanti”. Se ne togli anche solo uno il puzzle rimane incompleto. È davvero una serie in cui ogni attore e personaggio ha avuto bisogno degli altri, personalmente e professionalmente, per raccontare quella storia e renderla credibile”.

Dalla sua scuola sono emerse alcune importanti star dell’hip hop. Ci può descrivere quell’ambiente?
Non ho idea del perché Jay-Z, Busta Rhymes, Notorious B.I.G. e altri artisti hip hop siano usciti dalla mia stessa scuola superiore, la George Westinghouse Career and Technical Education High School. C’era parecchia tensione razziale in giro e mia madre ha fatto letteralmente carte false per permettermi di andare in una scuola prevalentemente nera, così da correre meno rischi, anche se tornando indietro avrei preferito una scuola più artistica e meno tecnica.

La sua prima carriera è stata la danza. Ma allora si è fatto anche la sua cicatrice. Cosa ci può dire di quel periodo?
Ballare è sempre stato parte di me, è grazie a quello che sono diventato un ragazzo più popolare. Però le droghe nella mia prima adolescenza mi hanno reso dipendente. Sono entrato in rehab a 21-22 anni, e dopo molti stenti sono diventato un ballerino di fila per diversi artisti. Poi sono finito in una rissa in un bar e lì mi sono fatto la cicatrice. Era un periodo davvero cupo. Tutti vedono la cicatrice sul volto, ma ne ho una anche sul collo, una ferita che per poco non mi ha ammazzato. La cicatrice ha catturato l’attenzione di David LaChapelle, che mi ha fotografato, e pure altri mi fermavano per strada per uno scatto. Allora ho iniziato a vedermi diversamente: ero sotto shock, mia madre era messa a dura prova, avevo paura per me stesso, temevo di finire in una situazione che non avrei saputo gestire, come la prigione.

Il primo film in cui ha avuto una parte significativa è stato Bullet di Julien Temple, di nuovo vicino a una star dell’hip hop, questa volta Tupac Shakur.
Tupac e quel film hanno cambiato la mia vita. Lui era in difficoltà processuali e professionali, e a ripensarci è impressionante la pressione a cui è stato sottoposto a soli 22 anni, quando tutto quello che voleva fare era la sua musica, dare voce ai senza voce della sua comunità. Non ha mai avuto occasione di maturare veramente.

Venendo a The Wire, come si è evoluto il ruolo di Omar?
Mia madre era andata in pensione e aveva aperto un doposcuola per i bambini del quartiere. Mi ero trasferito da lei e ho lavorato lì per quasi due anni, quando mi hanno chiamato per The Wire. Pensavo che la mia carriera di attore fosse finita, non avevo capito che in questo lavoro ci sono alti e bassi ed è normale che vada così. Il personaggio di Omar doveva essere un ruolo ricorrente di sette episodi, ma non si era ancora deciso se e come il suo percorso dovesse finire. Lo sviluppo del suo arco narrativo ha preso corpo strada facendo. Mentre la storia entrava nel vivo, David Simon ed Edward Burns hanno guardato i giornalieri, la mia interpretazione e la risposta suscitata dal personaggio, e hanno preso a scriverlo di conseguenza. Così è nato questo meraviglioso matrimonio artistico.

Quello con David Simon è stato un rapporto sempre facile?
All’inizio pensavo solo a me stesso, solo arrivato alla terza stagione mi sono reso conto di quanto grossa fosse la storia di cui stavo facevo parte. Per me era quasi il primo lavoro, non ero mai stato pagato tanto in vita mia, non sapevo come gestire i soldi. Mi ero arrabbiato con Simon per la seconda stagione, perché l’attenzione si spostava sui bianchi. Ma lui mi disse che se la serie fosse rimasta nel ghetto avrebbe raccontato un mondo troppo piccolo e poco importante. Arrivati alla terza stagione, mi sono scusato con lui perché ho capito che era una storia americana, di ogni ghetto e ogni città, capirlo mi ha reso più umile. Insieme alla quarta, la seconda stagione è la mia preferita: è quella che mi ha insegnato di più, non avevo idea del ruolo e del funzionamento dei porti nelle comunità americane, non mi ero mai chiesto da dove venisse la droga.

 

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Della filosofia di Omar sono state date letture antimaterialiste, cosa ne pensa?
Ero troppo immaturo per capire queste cose. Pensavo solo alle mie battute: era tutto nella mente di Simon, una sua responsabilità. Non sapevo niente del modo di vivere di Omar, ma il fatto che non dica parolacce o non ami il lusso lo capivo, sia per le mie origini sia per la timidezza con le ragazze, ed è lì che ho trovato la mia connessione con Omar e la possibilità di dargli corpo.

Omar è diventato uno dei personaggi simbolo della serie, al punto da farle guadagnare l’apprezzamento del presidente Obama. Come ha vissuto tutto questo?
The Wire era corale, non c’erano personaggi che emergevano sugli altri. Per dirla con Simon, “tutti i pezzi sono importanti”. Se ne togli anche solo uno il puzzle rimane incompleto. È davvero una serie in cui ogni attore e personaggio ha avuto bisogno degli altri, personalmente e professionalmente, per raccontare quella storia e renderla credibile. Quanto a Obama, che ho incontrato alcune volte, è stato molto generoso e coraggioso a parlare di The Wire e a dire che Omar era il suo personaggio preferito, ci volevano davvero le palle considerata tutta la responsabilità che aveva su di sé come primo presidente nero. Questo mi ha portato a prestargli attenzione come essere umano prima che per il colore della pelle, e ad ascoltare quello che diceva come presidente.

“La gente mi diceva che amava Omar ed ero contento, ma io non sono lui. Ho dovuto allontanarlo per crescere. Mi ero totalmente immerso in lui: non che andassi in giro con il mio ragazzo a derubare la gente, ma qualcosa della sua oscurità mi è rimasta addosso”.

Non dev’essere stato facile lasciarsi alle spalle un personaggio simile…
È stato il mio primo ruolo ricorrente, la mia prima serie, e per la prima volta ho avuto dei fan. Non sapevo come affrontare una cosa del genere, avevo una storia personale di insicurezza da superare. È stato un lungo processo, e alla fine della serie, quando mi chiamavano Omar nove volte su dieci – e io rispondevo –, ho realizzato di aver costruito un falso senso di orgoglio. La gente mi diceva che amava Omar ed ero contento, ma io non sono lui. Ho dovuto allontanarlo per crescere. Mi ero totalmente immerso al suo interno: non che andassi in giro con il mio ragazzo a derubare la gente, ma qualcosa della sua oscurità mi è rimasta addosso. Amo i colleghi di The Wire, siamo ancora in contatto, e quando la serie stava finendo è stato deprimente, non ero preparato ad affrontarlo e durante gli ultimi episodi piangevo. Lasciare un personaggio e una troupe dopo cinque anni fa male, non importa chi sei.

Omar è un vigilante nero del ghetto, quasi una sorta di supereroe. Sente di aver preceduto Black Panther?
Beh, perché no, è un’idea che posso abbracciare!

Finora abbiamo parlato di David Simon, ma lei ha collaborato anche con un grande regista: Martin Scorsese.
Lavorare con Marty, come lo si chiama sul set, è come stare in una famiglia. Boardwalk Empire è stata la seconda volta, la prima era Al di là della vita. Ero fuori città per uno spettacolo di danza e quando mia madre mi ha detto che Martin Scorsese voleva farmi un’audizione ho piantato tutto e sono tornato a casa dicendo che era un’emergenza familiare. Se non l’avessi fatto, del resto, credo che mia madre mi avrebbe ucciso! Ho fatto l’audizione per tre parti e Marty ha detto che ero bravo e potevo avere quella che preferivo. È stato in quel momento che ho appeso le scarpe al chiodo.

Come ha lavorato invece su Boardwalk Empire?
All’inizio ero molto nervoso, perché immaginavo che Chalky sarebbe stato una sorta di servitore nei confronti di Nucky. Marty invece mi ha preso da parte e mi ha ricordato che la mia prima battuta era “È meglio che Nucky non mi faccia perdere tempo”. Non pensavo potessero esserci boss neri negli anni Venti ad Atlantic City, ma Marty mi ha detto che avremmo chiarito subito che era un leader e mi ha dato la possibilità di partecipare alla costruzione del personaggio. Con gli attori lavora così, in modo molto collaborativo: dirige un set dove regna la calma e si cerca insieme la performance più profonda possibile. Non avevo mai visto prima un set come il suo.

Cos’ha significato per lei il passaggio da The Wire a Boardwalk Empire?
Boardwalk e The Wire erano molto diverse, come budget c’era una differenza enorme. Oggi poi The Wire è riconosciuta da tutti come un’opera importante, perché capiamo che la società è interconnessa e che – un po’ come la farfalla nella teoria del caos – un piccolo fatto in un comunità distante può avere effetto su tutti. Al tempo però c’era una parte del pubblico che non voleva che quelle storie gli entrassero in casa, le sentiva estranee, mentre Boardwalk Empire era da subito una serie accettata da tutti. Questo mi ha aperto spazi importanti, mi ha spalancato le porte anche con il pubblico bianco e di mezz’età. Entrare nelle loro case è stato come avere l’accesso a un club.

Con Chalky e Omar ha interpretato due figure nere iconiche, scritte però da uomini bianchi. È un paradosso?
A volte mi chiedo perché non possiamo avere più autori neri che raccontano storie di neri, e credo che ci arriveremo in futuro. Allo stesso tempo, però, scrivere è scrivere e se lo si fa in modo onesto, sincero e appassionato alla fine è quello che conta, il colore della pelle dietro la penna diventa secondario. Poter dire aver interpretato Omar e Chalky nella mia vita mi rende estremamente fiero.

Omar prima e ora Leonard sono due personaggi gay, ma pure “badass”, duri che rompono lo stereotipo per cui gli omosessuali in televisione sono sensibili ed effeminati. Ha sentito su di sé una responsabilità per questo?
Amo raccontare storie, prima di tutto, e se il personaggio è gay, ok, va benissimo. Sono molto grato di aver avuto l’occasione di rompere stereotipi sulla comunità gay. Sono stato cresciuto a Brooklyn da una lesbica, che mi ha indurito per prepararmi alla strada. Sono sempre stato esposto alla comunità e nessuno lì mi ha mai chiamato “softie”, a differenza di quanto mi è capitato in altre situazioni. Credo che Omar abbia aiutato a ridurre l’omofobia tra i neri, e credo fosse ora e fosse importante. È ok essere gay, essere se stessi, essere un uomo, in qualunque modo vuoi definire un uomo: con chi dormi non importa. Omar è stata forse la prima volta in cui abbiamo visto queste idee in un personaggio nero.

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Non posso non chiederle di 12 anni schiavo, che immagino abbia un significato importante per chi ci ha lavorato.
Dire che sia stato il momento definitivo nella mia carriera sarebbe un eufemismo: è stata la prima volta che ho partecipato a un film da Oscar, ed è stato un momento cruciale nella mia vita. L’esperienza sul set è stata difficile, perché mi ha fatto sentire quello che i miei antenati devono aver subito per 400 anni, mi ha risvegliato qualcosa nel Dna. C’è una scena, poi tagliata, in cui sono andato completamente a pezzi, non riuscivo a smettere di piangere e gridare. In quel momento ho sentito davvero la realtà del personaggio e del pestaggio che subiva, come fosse reale. È stata un’esperienza extrasensoriale. Sono molto orgoglioso di aver partecipato a un film simile, con quegli attori e con il regista Steve McQueen.

In The Night Of, di Steven Zaillian e Richard Price, lei interpreta Freddy, un carcerato, e la questione del sistema carcerario-industriale è molto discussa nella comunità nera.
Per Freddy ho vissuto un lungo processo, molto cupo, sia perché è tossicodipendente, come sono stato io, sia perché mi sono ispirato a mio nipote Dominic, che ha lo stesso carisma ma lo usa per aiutare gli altri, mentre Freddy lo sfrutta per il suo tornaconto. Ho iniziato a capire la vita di mio nipote, che era stato incarcerato a 19 anni, per omicidio di secondo grado, per difendere il suo gemello dal membro di un’altra gang. È stato condannato a 25 anni anche se non si era mai drogato, non aveva mai fatto niente di male, era un bravo ragazzo, andava al college, e tutto è cambiato per una sola scelta sbagliata. The Night Of mi ha fatto pensare a come dovesse essere la sua vita in carcere, sono pensieri pesanti. Persino la strada per il set era la stessa che facevo per andarlo a trovare, e questo rendeva tutto più vivido.

Il tema quindi la tocca di vicino, e questo spiega anche perché ha prodotto la miniserie documentaria Shelter, ambientata in un centro per ragazzi in difficoltà a New Orleans, e ha partecipato all’episodio di Vice Raised in the System.
L’America ha il maggior numero di minori detenuti : il cosiddetto “school to prison pipeline” [condotto dalla scuola alla prigione]. Abbiamo criminalizzato il comportamento giovanile, e con la privatizzazione delle prigioni, dovendo riempire quelle celle, si finisce per usare i ragazzi. A parlare con loro, come ho fatto in Shelter e Raised in the System, si ascoltano i loro rimpianti, gli errori, lo shock e il trauma della vita nel ghetto. E a tutto questo il sistema risponde con condanne da adulti, anche se sono ancora ragazzi, senza contare che la prigione li forma e una volta usciti finiscono per tornare dentro.

È vero che uno dei suoi incontri con Obama è stato su questo tema?
Non capivo perché avessero invitato alla Casa Bianca proprio me e altri come me, finché non mi hanno detto che le persone più vicine a un problema sono quelle più vicine alla soluzione. È stato allora che ho avuto l’idea di Raised in the System e durante la realizzazione mio nipote è uscito finalmente di galera. Abbiamo opzionato un libro intitolato Bishop, una sorta di racconto di formazione sul mondo dell’hip hop, e userò questo progetto per creare lavoro nella mia comunità e dare chance a nuovi talenti.

Visto che ormai è anche produttore, come sceglie i suoi ruoli?
Non sento di essere io a sceglierli, sono loro che scelgono me. Sono grato di aver lavorato così tanto in questi anni, ma mi sento ancora un attore che lotta per farsi strada e niente di più. In questo lavoro devi lasciare che un’altra realtà, fittizia, ti entri dentro, ed è uno strano processo. Non so perché qualcuno voglia fare una cosa del genere, ma è quello che faccio volentieri, anche se è doloroso e ha un costo.

Quali sono le sue passioni da spettatore?
Non riesco a vedere tutte le serie che vorrei e quando ci provo divento ansioso, perché ce ne sono troppe. Sarei senza vita privata, senza lavoro e senza tetto se cercassi di vedere tutto quello che voglio. Al momento cerco di stare in pari con Shameless, che seguo dal principio, Atlanta e mi diverte molto 2 Broke Girls, che trovo coraggiosa per i network. Ho amato American Crime, credo che Timothy Hutton, Felicity Huffman e Regina King siano davvero straordinari.

Infine, per chiudere il cerchio, considerata l’attuale rinascita dei musical non le è venuta voglia di tornare a ballare?

Non ballo più bene come una volta, sono fuori allenamento, ma prenderei al volo l’occasione di un musical, sul palco o al cinema. Una versione hip hop di La La Land sarebbe fantastica!


Andrea Fornasiero

Dottore di ricerca in Culture della Comunicazione, scrive per Film Tv, MyMovies, Movieplayer e Fumettologica. Tiene corsi e lezioni sulla serialità tv. Collabora con Officine Ubu nel settore acquisitions ed è autore di un libro su Terrence Malick (Le Mani, 2008). È stato autore televisivo di Wonderland, Mainstream e di due emissioni italiane degli Emmy Awards per Rai 4. Ha collaborato a due edizioni del Roma Fiction Fest.

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