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Produzione canaglia

Il passato recente sta diventando il nostro Westworld

Non è solo per trascolorarle nel ricordo che le serie tv sono ambientate negli ‘80. È più facile, senza tecnologie o questioni morali. Come in un parco a tema.

“Sarebbe possibile raccontare una storia di questo tipo nel 2017?”, chiede Jim Rash a Shawn Levy nel secondo episodio di Oltre Stranger Things, l’aftershow che esplora i dietro le quinte della seconda stagione della serie. “Se in questa storia ci fossero stati internet e i cellulari”, risponde Levy, “avremmo dovuto concepirla in modo completamente diverso: l’eccessiva disponibilità di informazioni avrebbe disinnescato ogni mistero e ogni conflitto”.

Il 27 ottobre i nove episodi di Stranger Things 2 sono approdati sulla piattaforma Netflix e hanno subito cominciato a erodere il record fissato dalla prima stagione: 15,8 milioni di spettatori nel primo giorno (nei soli Stati Uniti), 361.000 dei quali hanno esaurito la stagione in una sola sessione. Di fronte a simili numeri, in molti stanno cercando di capire quale tipo di ricetta abbia garantito ai Duffer Brothers un tale successo, quale frequenza siano riusciti a intercettare per replicare l’impresa compiuta nel 2016, mentre una schiera di critici aspettavano il minimo scivolone per bollare la serie come prodotto per nostalgici ed eterni peter pan.

Negli ultimi anni, infatti, si è parlato parecchio del cosiddetto “effetto nostalgia”, e in molti hanno tentato di liquidare la gemmazione di show legati agli anni Ottanta (o comunque a un passato altrettanto iconico) come il prodotto di una strategia “sentimentale”. Il ritornello fa più o meno così: c’è una nutrita fetta di pubblico che è cresciuta negli anni Ottanta e non ha ancora elaborato il lutto dei Vhs, dei telefoni fissi e delle sale giochi; basta un prodotto credibile che alterni strizzate d’occhio a storie dal sapore retrò, e il risultato è sicuro. Non è un ragionamento totalmente campato per aria.

Ma ricondurre la strategia produttiva di una serie come Stranger Things al solo parametro della nostalgia rischia di essere fuorviante: perché un conto è programmare un’infilata di reboot, remake e prequel, un altro è creare una serie da zero e decidere di ambientarla in un mondo che una buona fetta del pubblico più giovane non ha mai sperimentato in prima persona. Nel primo caso si sta cucendo un prodotto su misura di un pubblico noto e selezionato, nel secondo si sta producendo una serie che, almeno potenzialmente, dovrebbe intercettare un pubblico molto più vasto.

E se è vero che Gaten Matarazzo nelle interviste dichiara a petto in fuori che il suo film preferito sia I Goonies, è altrettanto vero che imbastire un’intera strategia produttiva sul fatto che buona parte dei millennial sta riscoprendo i film e le serie degli anni Ottanta su Netflix sarebbe come minimo miope. In realtà, dietro la scelta di ambientare una serie nuova e originale in un passato prossimo, si nascondono anche dinamiche che con la nostalgia non hanno nulla a che fare.

Una tecnologia meno invasiva

Il modo in cui le persone comunicano è un aspetto cruciale di qualsiasi storia. Che si tratti di un poliziesco, di una dramedy o di un biopic, la storia si articola attorno a una serie di personaggi e ai conflitti che li muovono all’interno di una situazione: perché la matassa narrativa possa dipanarsi, questi personaggi devono interagire tra loro, e per interagire devono comunicare. Ed è qui che la tecnologia del presente entra a gamba tesa. Oggi viviamo immersi in un flusso incessante di informazioni, comunichiamo in continuazione, spesso con più persone in parallelo, e lo facciamo da remoto, utilizzando dispositivi che per una serie di ragioni risultano poco telegenici: possiamo restare incollati svariati minuti allo schermo a osservare due persone che litigano, ma quanto resisteremmo a vedere quelle stesse due persone palleggiarsi messaggi arrabbiati su Whatsapp? Il coinvolgimento emotivo di uno spettatore, la sua capacità di immedesimarsi in un personaggio sullo schermo, è legata anche alla mimica facciale, alla gestualità, al tono della voce: tutti elementi che nella comunicazione digitale moderna sono smorzati, se non del tutto assenti.

Le serie ambientate prima del boom di internet (o anche solo del boom dei social, quindi prima del 2007) consentono di inserire i personaggi in una cornice di relativa scarsità comunicativa: se un personaggio voleva comunicare in tempo reale e a distanza con un altro personaggio doveva utilizzare un telefono fisso, oppure rintracciarlo di persona. “Senza cellulari, non dobbiamo più ricorrere a quel cliché tipico degli horror in cui un personaggio informa tutti a voce alta che non c’è campo”, spiega Ross Duffer, sempre in Oltre Stranger Things: “Il bello dei walkie talkie è che puoi decidere se farli funzionare male o perfettamente, a seconda delle esigenze narrative”.

Imbastire un’intera strategia produttiva sul fatto che buona parte dei millennial sta riscoprendo i film e le serie degli anni Ottanta su Netflix sarebbe come minimo miope. In realtà, dietro la scelta di ambientare una serie nuova e originale in un passato prossimo, si nascondono anche dinamiche che con la nostalgia non hanno nulla a che fare.

Un allestimento per sottrazione

Una volta, se una serie funzionava bene e si dimostrava in grado di produrre seguaci, era naturale immaginare un sequel: lo spettatore voleva ritrovare i personaggi a cui si era affezionato e riscuotere il frutto del suo investimento emotivo. Oggi invece assistiamo a una proliferazione di prequel (si pensi a Better Call Saul, ma pure a Young Sheldon e Suburra). Se molte produzioni decidono di ambientare nuove storie nel passato recente, è plausibile che lo facciano per lo stesso motivo per cui gli autori ambientano nei primi anni Duemila romanzi che parlano chiaramente di oggi: sono più attrezzati a raccontare il passato che a interpretare il presente; e poi senza smartphone e social network tutto diventa più facile.

Ma c’è anche una questione economica: ambientare una serie in un passato (o in un futuro) lontano può essere molto costoso. Basti pensare ai 13 milioni di dollari per episodio di The Crown, ai 9 milioni per episodio di Marco Polo, o ai 2 milioni di dollari per ricostruire la passeggiata pavimentata di Boardwalk Empire. Incastonare una serie negli anni Ottanta consente di ricreare un mondo per sottrazione: le difficoltà a recuperare la tecnologia dell’epoca (i walkie talkie, i televisori a tubo catodico, i telefoni a disco) sono nulla paragonate ai vantaggi narrativi che comporta eliminare dall’equazione quella di oggi.

Indagini a bassa definizione

Lo scarto tecnologico non riguarda solo l’ambito comunicativo. Si nota anche, e soprattutto, nelle serie crime, dove il peso dell’innovazione diventa spesso inaggirabile. Serie come CSI e Forensic Files ci hanno insegnato che è praticamente impossibile compiere un crimine efferato senza disperdere una pioggia di tracce. Questa consapevolezza produce due effetti. Da un lato è sempre più difficile rendere plausibile che un personaggio compia un delitto senza essere incastrato nel giro di pochi giorni, a meno di rinunciare al realismo (nessuno andrà a sindacare l’attendibilità degli omicidi di un Santa Clarita Valley, per dire). Dall’altro, con la tecnologizzazione delle indagini scientifiche il ruolo dell’investigatore ha assunto una dimensione diversa: la risoluzione dei casi non può essere più affidata solo al suo fiuto e astuzia, a meno che questo intuito e questa astuzia siano fuori dal comune, quasi soprannaturali (si pensi a Sherlock). Il risultato è che spesso l’indagine passa in secondo piano ed emergono le storie dei personaggi, le relazioni, le tematiche esistenziali. L’alternativa, anche qui, è ambientare la storia nel passato, e allora ecco che abbondano i period crime-drama (come Peaky Blinders, Mindhunter, L’altra Grace) e, naturalmente, le serie true-crime (The Jinx, Making a Murderer, American Crime Story), che possono attingere a dati, dinamiche e ambientazioni reali, eliminando a priori i problemi della sospensione dell’incredulità.

Oggi viviamo immersi in un flusso incessante di informazioni, comunichiamo in continuazione, spesso con più persone in parallelo, e lo facciamo da remoto, utilizzando dispositivi poco telegenici: possiamo restare incollati svariati minuti allo schermo a osservare due persone che litigano, ma quanto resisteremmo a vedere quelle stesse due persone palleggiarsi messaggi arrabbiati su Whatsapp?

Un nuovo escapismo morale

“Sono cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, quando tutte le regole relative al comportamento sul luogo di lavoro erano differenti. La cultura del tempo era quella”. La vergognosa dichiarazione con cui Harvey Weinstein ha cercato malamente di proteggersi dalle molteplici accuse di molestie riflette il modo in cui diversi prodotti televisivi trattano il passato più recente, esasperandolo talvolta fino al grottesco: come fosse una bolla a sé stante, priva di sostanziali contatti con il presente, un territorio nebuloso in cui la bussola morale non segnava un nord preciso, le leggi erano più facilmente aggirabili e gli attuali paletti che separano il giusto dallo sbagliato non erano ancora ben piantati nel terreno. È così che in Stranger Things un personaggio indubbiamente positivo come lo sceriffo Jim Hopper fuma e beve senza remore, se ne infischia di qualsiasi regola e mena le mani approfittando del distintivo senza incorrere in nessun tipo di conseguenza legale o stigma sociale; discorso simile vale per il personaggio di Bill Tench, che in Mindhunter, serie ben più realistica di Stranger Things, si guadagna la simpatia del pubblico per la sua condotta sregolata, mentre attorno a lui gli altri personaggi aggirano la legge e guidano ubriachi. Parliamo di un’epoca abbastanza vicina nel tempo da assomigliare alla nostra e abbastanza lontana da consentire agli autori di prendersi libertà creative: perché se è vero che negli anni Ottanta si poteva fumare nei locali, è anche vero che guidare sotto l’influenza dell’alcol era già un reato, e pure serio. Oltre a eliminare dall’equazione produttiva una serie di problematiche comunicative e narrative, dunque, ambientare una storia in un passato recente fornisce allo spettatore un salvacondotto per immedesimarsi in personaggi che, in un contesto contemporaneo, sarebbe naturale giudicare con parametri più rigidi.

Questa sorta di escapismo morale non riguarda solo i personaggi, si estende anche all’ambientazione: gli anni Settanta e Ottanta (e anche i Novanta, per certi versi), sono spesso rievocati come un’epoca senza legami socio-politici con il presente, e questo per via anche dell’attacco alle Torri Gemelle del settembre 2001, evento che nell’immaginario pubblico ha stabilito un “prima” e un “dopo”. E allora, a prescindere da quanto preponderante fosse la cornice socio-politica degli anni Ottanta (l’incubo di una guerra nucleare, la recessione e le politiche conservatrici di Reagan e Thatcher, i tassi di criminalità nelle metropoli), è possibile utilizzare quell’ambientazione temporale come una zona franca in cui è lecito concentrarsi sulle singole storie, a prescindere dai dibattiti che infuocavano il periodo (e, a maggior ragione, tenendosi a debita distanza da quelli che infuocano il presente). L’esempio più lampante di questo approccio è Red Oaks, una storia di formazione ambientata interamente in un country club nel New Jersey della metà degli anni Ottanta. Prodotto da Amazon e giunto da poco alla terza e ultima stagione, Red Oaks parla di sesso ma non di sessismo, di discriminazione ma non di razzismo, di singoli crimini finanziari ma non di bolle speculative organizzate. Non sembra esserci alcuni filo tra quello che avviene nel country club e il mondo esterno, e questo permette allo spettatore di godersi una commedia dal sapore retrò, concentrandosi unicamente sulle dinamiche che intercorrono tra i personaggi.

Un parco a tema senza tempo

La tendenza a utilizzare il passato come ambiente controllato per l’incubazione di storie ha raggiunto un livello tale che c’è chi è riuscito ad ambientare nel passato una storia che appartiene al futuro. Westworld racconta di un parco divertimenti per adulti a tema western in cui le attrazioni sono robot umanoidi pressoché indistinguibili dagli esseri umani. I facoltosi visitatori pagano cifre astronomiche per trascorrere del tempo in un posto dove è loro concesso di tutto: stupri, omicidi, violenze, torture.

La combo western-fantascienza non è affatto inedita, eppure qui l’accoppiata appare del tutto fresca. Questo perché la scelta di fondere queste due cornici di genere, per quanto produttivamente strategica, ha giustificazione narrativa: il parco di Westworld offre una fuga dalla realtà, un’assoluzione preventiva alle proprie inclinazioni meno edificanti, un territorio franco in cui forzare i limiti della propria moralità, il tutto in un ambiente tutto sommato noto, canonizzato, e dunque relativamente rassicurante. Il che offre un curioso parallelo meta-narrativo con la serie stessa e le serie tv in generale, che a loro volta offrono una fuga dalla realtà in un contesto tanto esotico quanto rassicurante. Il futuro di Westworld è sostanzialmente invisibile, relegato a un dietro le quinte ipertecnologico rispetto a quello che è il vero set della storia: una scenografia western ultracollaudata, costumi calibrati su decenni di esperienze produttive, personaggi talmente iconici da non risultare (quasi) mai forzati. E se le linee narrative offerte ai visitatori appaiono stereotipate, be’, è un parco a tema: è normale che lo siano.

Parlando degli show ambientati negli anni Ottanta e Novanta, il network Abc ha schivato il termine “nostalgia” per parlare di “timeless tv”. E sembra proprio questa la direzione verso cui si stanno muovendo alcune produzioni. L’obiettivo non pare tanto quello di glorificare un decennio, quanto di codificare un “passato senza tempo”, sufficientemente coerente da poter fungere da territorio neutro per ospitare un ampio ventaglio di storie. Una specie di parco a tema virtuale, insomma, in cui lo spettatore sa di poter fare ed essere ciò che vuole, dimenticandosi per qualche ora del mondo esterno, e della paura di essere giudicato.


Fabio Deotto

Laureato in biotecnologie, è scrittore, traduttore e giornalista. Scrive di scienza e cultura per diverse testate. Ha pubblicato due romanzi con Einaudi, Condominio R39 e Un attimo prima. Nel 2021 ha scritto il saggio L' altro mondo. La vita in un pianeta che cambia.

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