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Testimonianza

Giffoni: Walter White spiegato dai ragazzini

Pensieri dal Giffoni Film Festival, sul successo duraturo della manifestazione, sugli adolescenti di oggi e sul perché guardano Breaking Bad e ascoltano la Dark Polo Gang.

A dar retta all’applausometro dell’accoglienza, la star più acclamata al Giffoni Film Festival è stato Bryan Cranston. Più degli ospiti italiani, uno poteva attenderselo, ma anche più di Amy Adams, Julianne Moore, persino Kit Harington (che comunque ha avuto l’accoglienza allegramente ormonale che si poteva immaginare). I ragazzi sono preparati all’incontro con la star, prendono con la dovuta serietà il compito di giurati del festival, fanno i complimenti a Cranston per diversi film: è piaciuto Trumbo, spendono belle parole per le interpretazioni in Drive e Salvate il soldato Ryan (io m’ero dimenticato che ci fosse), ma tutto ruota attorno a Breaking Bad. Hanno a disposizione Walter White per un’ora e se la godono tutta. I film di Cranston sono importanti, ma Breaking Bad svetta, per loro è un classico e da tale lo trattano. In una canzone di Ghali che, per caso, sentirò uscire anche dal telefonino di un ragazzo qualche ora dopo l’incontro, è citato un personaggio minore della serie come Tuco Salamanca. Dovrebbe darmi l’idea di quanto BB sia conosciuta mentre io, ignorante, presumevo non avesse attecchito che tra la mia generazione. Quando l’animatore dell’incontro di Cranston chiede se ci sono domande alzano la mano in duecento (senza iperbole). Bisognerebbe portare dei ragazzini anche a certe presentazioni di libri che vedo durante l’anno, sono abituato alla gente che si nasconde dietro le sedie appena ascolta richieste analoghe.

Pretendiamo dai bambini che comprendano le sfumature dei generi e le parodie senza avere mai offerto loro le basi per capire i discorsi. Offriamo loro una quantità di materiale, di spettacoli e di programmi, ma non abbiamo mai ragionato abbastanza su quanto alcuni film dovrebbero essere considerati di base, pedagogici, preliminari.

Sfrenata vitalità

Una sera, a cena, mi siedo per caso accanto a due persone venute a studiare, dietro incarico di una banca, il successo economico del Festival. Un “volano” per l’economia locale, come vuole il gergo, eppure qui è una descrizione veritiera. Ma a me che arrivo da un’altra provincia dell’entroterra campano, all’apparenza sonnacchiosa come questa, dove proprio come qui le antiche case di tufo sono abbandonate di anno in anno per spostarsi, tutti, a pochi chilometri di distanza in palazzine senza personalità, sembra ancora più miracoloso che agli altri come, ormai da 47 anni, questo festival sia ricco di allegria e di ospiti (che fanno invidia e farebbero comodo a altri festival più o meno emergenti). Che non si veda nessuna forma di stanchezza né tra i ragazzi (e vabbè) ma neanche tra gli organizzatori. Quell’aria da solito tran tran che vedi altrove, da e pure stavolta l’abbiamo sfangata. Mentre di norma, in Italia, organizzare una cosa per bambini è una scusa per organizzarne una per gli adulti (tipo: i libri illustrati per bambini che in realtà sono libri illustrati per adulti), a Giffoni è evidente che il centro sono i circa cinquemila ragazzi dai 3 ai 18 anni presenti. Con quel che ne consegue in vitalità.

Il ringraziamento al Festival di Truffaut, ospite nel 1982, è stato inciso su alcune maioliche affisse in una delle piazzette del paese, parla “di questa bella e unica manifestazione” e spiega che “tra tutti i festival del cinema, quello di Giffoni è il più necessario”. Nonostante sia Truffaut, sento già lo sbuffo del “vabbè, saranno parole di circostanza”, e avrei sbuffato anch’io, abituato al cinismo, se non avessi assistito a certe proiezioni in cui la partecipazione dei bambini è talmente rumorosa e sentita e convinta da riconciliarti con tante sensazioni sopite, a furia di vedere luci del telefonino accendersi svogliatamente durante ogni visione. (Non che non ci si possa godere un film anche con il telefonino in mano, è chiaro, ma anche quando la partecipazione è completamente catturata, e con quale intensità!, beh, è una cosa che ha fascino).

Penso, per esempio, al film svedese che ha vinto la sezione +10, Room 213 di Emelie Lindblom, un film horror per bambini (adatto appunto dai dieci anni, ma anche forse qualcosa in meno), che ho avuto il piacere di vedere in mezzo a duecento bambini che strillavano, giravano continuamente la testa per guardare e non guardare, si tenevano la mano. Ma guardando tanti di questi film, la stragrande maggioranza dei quali non avrà mai distribuzione in sala, mi sono anche accorto di una cosa che mi pare diamo troppo per assodata: pretendiamo dai bambini che comprendano le sfumature dei generi e le parodie senza avere mai offerto loro le basi per capire i discorsi. Offriamo loro una quantità di materiale, di spettacoli e di programmi, di videogame, spesso molto elaborati, spesso con possibilità di diverse letture, ma non abbiamo mai ragionato abbastanza su quanto alcuni film dovrebbero essere considerati di base, pedagogici, preliminari. Gli mostriamo i “meta-Goonies” senza avergli mai mostrato i Goonies.

Istruzioni globali

Anche il film che ha vinto la sezione +6 è esemplare in tal senso. Parlo di Master Spy, film del regista olandese Pieter Van Rjin che racconta la divertente storia di un bambino che aiuta una spia tornata dopo l’ibernazione a risolvere un caso. Anche questo film convince i ragazzi perché offre loro, finalmente, gli strumenti per capire una quantità di altre storie che si saranno trovati a maneggiare e con cui avranno già avuto a che fare. Agenti sotto copertura, agenti doppiogiochisti, walkie talkie, antidoti, tutte cose che finora avranno sempre dato tutti per scontate e che, invece, qui hanno colto nella loro essenzialità. Da questo punto di vista sarebbe persino augurabile che qualcuno immaginasse di una sorta di abbecedario necessario all’immersione nel flusso della contemporaneità. Così come la scuola gli offre i mezzi per analizzare la scrittura, qualcuno potrebbe in qualche modo fornire loro anche quelli per capire le immagini.

Durante gli incontri con gli ospiti arrivano domande da ragazzini australiani, palestinesi, mongoli, georgiani, statunitensi, israeliani e altri Paesi ancora. Siamo a venti chilometri da Salerno, a una quarantina dalla costiera amalfitana che, nella migliore delle ipotesi, è l’unico luogo del circondario che possono aver mai sentito nominare di queste parti. Ma come avviene sempre nella provincia italiana, quaranta chilometri in una direzione possono non essere nulla, quaranta in un’altra possono portarti in un altro mondo, e qui la costiera non c’entra nulla. Sono tutti ospiti delle famiglie della zona. I pomodorini gialli e le nocciole sono i prodotti che gli stranieri porteranno alle loro famiglie come “tipici” dei boschi e delle campagne attorno. Una sera l’odore degli incendi che stanno devastando il circondario arriva anche qui. A un naso inesperto o poco attento sembrano stiano semplicemente grigliando qualcosa. Ma per loro non accorgersi di cosa accade non è un demerito, li vedi da lontano mentre si godono il fresco della sera, dopo essersi messi in tenuta da uscita, asciugato il sudore del pomeriggio e delle visioni. Intravedi le mani che si sfiorano, qualche trucco, provano a ripetere le atmosfere caste e romantiche dei film con i primi amori che hanno visto assieme al pomeriggio mentre tu sei con i tuoi figli ancora piccoli e temi e ti auguri di quando toccherà a loro e, per una volta, pensi che ignorare qualcosa, l’incendio, sia un privilegio e non solo una fortuna. Per quanto riguarda i “locali”, invece, il festival dà loro soprattutto un modo per combattere il disinteresse e l’indifferenza che, da queste parti, entrano davvero nelle vene delle persone, anestetizzando anche le migliori intenzioni o soprattutto quelle. Sottomettendo con gli sfottò e una presunta ironia ogni iniziativa.

Con quel grado di soddisfazione di quando un italiano vince un bronzo nel kayak, a un certo punto noto che la domanda che mi colpisce di più la fa un italiano. Chiede a Cranston una riflessione sull’insoddisfazione di Walter White e l’insoddisfazione, a livello globale, degli insegnanti. Domanda anche se sa che nella scuola italiana i professori sono malpagati e insoddisfatti. (Fosse stata elaborata durante un incontro scolastico tenderei a credere che un professore l’abbia imboccata). Cranston risponde che, nella sua vita, alcuni professori hanno contato parecchio e che lui ha sempre cercato di ringraziarli e gratificarli per quanto hanno significato per lui. Credo che il ragazzo parlasse soprattutto di gratificazioni economiche, ma – com’è ovvio – la conversazione va avanti con la domanda successiva.

I temi forti sono il sogno e il talento: come hai fatto a convincere i tuoi genitori a permetterti di inseguire la carriera di attore\regista\cantante; come hai fatto a capire che l’avresti fatta; quando l’hai capito; cosa consiglieresti a chi insegue questo sogno. Si dà molta enfasi alle emozioni.

Il cruccio delle emozioni

Non solo durante questo incontro si resta affascinati dal tenore delle domande, molto più che da quello delle risposte. Non per incapacità degli ospiti ma perché raccontano le vere curiosità dei ragazzi, diverse da come sono di solito immaginate e mediate dai giornalisti. I temi forti sono il sogno e il talento: come hai fatto a convincere i tuoi genitori a permetterti di inseguire la carriera di attore\regista\cantante; come hai fatto a capire che l’avresti fatta; quando l’hai capito; cosa consiglieresti a chi insegue questo sogno. Si dà molta enfasi alle emozioni: sono colpito dalla tua capacità di trasmettere emozioni o sei l’attore che riesce meglio a trasmettere le sue emozioni è un genere di frase che anticipa praticamente qualsiasi domanda. Come se il cruccio di tutti i ragazzi presenti fosse trasmettere in qualche modo le proprie emozioni. Anche in una forma un po’ barbara, come se le emozioni non dovessero mai essere frenate ma sempre esibite o “trasmesse”. Parlano sempre di emozioni, mai di sentimenti, noterebbe uno scrittore capace di trattare bene queste materie. Il tema centrale per tutti però è la fama. Cosa si prova a essere famosi, cosa si prova a essere riconosciuti, cosa significa per te vedere tutti questi ragazzi che farebbero di tutto per te, eccetera. In questo Bryan Cranston o Kit Harington sono identici a Mika o a Clementino, ospiti in altre giornate. Non chiedono qualcosa di diverso.

La sera, quando finalmente il caldo di quest’assurda estate lascia un po’ di respiro, la passeggiata su cui affacciano tutte le sale cinema si riempie di ragazzi. Ci sono le bande chiamate qui dal festival che regalano sempre divertimento, più avanti nella serata si ascolta musica da discoteca. Si crea sempre un altro gruppo di ragazzi che, con i telefonini, ascoltano musica diversa. A prima vista sono quelli dai gusti “alternativi”, solo che, quando ti avvicini e la confusione dei suoni che si accavallano per pochi metri non ti stordisce, stanno ascoltando Gue Pequeno o Ghali o la Dark Polo Gang. Lo sappiamo, l’indie non esiste più e queste canzoni di alternativo hanno ben poco, visto che sono in cima alle classifiche. E hanno ben poco di alternativo anche nei testi. Mi piacerebbe scoprire come mai tutti i ragazzini quest’estate sembrano ascoltare Gue Pequeno e Dark Polo Gang, canzoni dove la fama e il guadagno sono considerati l’unica forma possibile di successo e gratificazione (ecco, forse, il link con Walter White e le domande sulla fama), mentre tutti i professori che conosco parlano di “crisi della sinistra”. Lo dico evitando ogni ironia possibile: senza nulla togliere alla “crisi della sinistra”, ma anche senza nulla togliere alla Dark Polo Gang. La mia impressione è che i ragazzini e i loro gusti, qui e altrove, siano molto più integrati dei loro professori e che gli apocalittici siano ormai gli adulti. (Poi c’è sempre il cane di Pavlov per cui è colpa della televisione, come se i ragazzini formassero ancora le opinioni con il piccolo schermo).


Arnaldo Greco

Nasce a Caserta e vive a Milano, dove lavora per la tv. Ha scritto per Il Venerdì, IL, Rivista Studio, Il Post, Il Mattino.

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