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Calcio

E la nuova Champions?

La battaglia per una Lega europea che metta insieme le migliori squadre di pallone, tra cambiamenti alle regole e ripensamenti, rischi e opportunità.

Da quando, nel 1991, la Champions League (CL) ha preso, almeno nominalmente, il posto della Coppa dei Campioni, ha già cambiato formula sette volte e si appresta a farlo un’ottava volta a breve. A fronte di tanta precarietà, tra il 1955 e il 1991 invece il format non era praticamente mai cambiato. A essere pignoli, il cambiamento decisivo è ancora più recente, quando nel 1997 passa il principio che anche le seconde classificate possono accedere alla manifestazione (prima la cosa era stata concessa, neanche sempre, solo quando il detentore del trofeo non avesse vinto anche il proprio campionato). È quello il cambiamento che apre il vaso di Pandora.

È chiaro a tutti che anche la prossima riforma, quella del 2018, non sarà un punto di arrivo, ma l’ennesimo passaggio alla ricerca di un pubblico sempre maggiore: una nuova riforma è infatti già prevista per il 2021. Passaggio verso cosa, però, non è dato sapere. La quadra che manca alla CL non è, infatti, la formula, ma il potersi definire in modo inequivocabile: è il campionato delle migliori squadre europee o la manifestazione cui accedono le migliori squadre europee? Sembra la stessa cosa eppure, tra accelerazioni improvvise e marce indietro, si combatte da vent’anni attorno a questo punto. È l’Nba del calcio o è davvero solo l’evoluzione della vecchia Coppa dei Campioni? E di conseguenza: cosa bisogna offrire per aumentare gli spettatori e l’interesse?

La Nba del calcio

Se neanche la politica riesce più a definire cos’è l’Europa, è difficile chiedere ai team di sostituirsi ai leader. Eppure i grandi club hanno minacciato in più occasioni lo strappo e, ancora quest’estate, sembrava fosse destinata a passare una modifica che avrebbe permesso la qualificazione alla CL anche “per meriti storici”, un vero grimaldello per scassinare il merito sul campo. Ma ancora una volta ci si è fermati a un passo da un destino che per molti pare ineluttabile: la CL come il campionato Nba. Nessuna promozione, nessuna retrocessione, solo le migliori squadre. (Chissà che in questo caso abbia davvero contato anche il mutato sentimento dei cittadini sull’Europa).

Non ci sembra di bucare il pallone a un bambino se ammettiamo che tutte le riforme della CL hanno più a che fare con il pubblico che con lo sport. Si potrebbe anzi dire che i ragionamenti sul campionato europeo per club ruotino attorno a una questione di valore (economico) ben più grande delle altre: i tifosi italiani, inglesi, francesi eccetera si appassionerebbero alla Lega europea quanto sono appassionati alle leghe nazionali? Ci sarebbe un travaso dagli uni all’altra? Il travaso amplificherebbe l’interesse? La guarderebbero tutti in tv o guarderebbero comunque il proprio campionato, seppur ridotto? Se la CL si giocasse di sabato e domenica, per esempio, e le leghe nazionali nell’infrasettimanale, cambierebbe la percezione di ciò che è prioritario, oppure per un tifoso dell’Udinese conterà sempre più l’Udinese di ogni altra partita, per quanto bella e giocata dai migliori giocatori del mondo? Che un tifoso del City, della Juve o del Psg preferisca guardare City-Juve o City-Psg piuttosto che City-Wba o Juve-Crotone o Psg-Bordeaux lo sappiamo già. Quello che non sappiamo è se il tifoso del Crotone, dell’Everton, del Nantes o del Valencia guarderebbe Juve-Psg, partita di una Lega a cui non potrà mai partecipare, oppure no. Da anni proviamo a convincerci e, soprattutto, a convincerlo, ma con risultati alterni.

La Champions League è il campionato delle migliori squadre europee o la manifestazione cui accedono le migliori squadre europee? Sembra la stessa cosa eppure, tra accelerazioni improvvise e marce indietro, si combatte da vent’anni attorno a questo punto.

I paragoni con l’Nba reggono solo fino a un certo punto. È vero che negli Stati Uniti è naturale tifare per una delle 30 squadre del campionato, ma la voglia di campanilismo sportivo è sfogata con i college, con le squadre di high school o magari in altri sport professionistici, la cui grandezza equivale a quella del basket. In molti credono che in Europa non sarebbe così. Innanzitutto perché in tanti paesi il calcio è lo sport principale e se la o le squadre più forti rinunciassero al campionato nazionale quei campionati continuerebbero a esistere e i tifosi ne farebbero tranquillamente a meno. In alcuni casi potrebbe fare persino piacere. Una Liga spagnola senza Barcellona o Real Madrid sarebbe molto più povera, certo, ma anche più combattuta. Un tifoso del Siviglia, del Valencia o del Malaga la guarderebbe forse con rinnovata attenzione, sperando di poterla addirittura vincere. C’è il rischio che per il tifoso del Valencia la CL diventerebbe come un campionato estero, uno di quelli a cui dai un’occhiata se ti capita di trovarlo in tv, ma che non guardi con vera attenzione.

Nel basket europeo il processo è arrivato a uno stadio più avanzato. L’Eurolega di questa stagione si svolge per la prima volta come un torneo a sedici squadre. Di queste sedici, ben dodici sono qualificate di diritto praticamente a prescindere dai risultati. Le nazioni rappresentate sono pochissime: 4 squadre turche, 3 greche, 3 spagnole, 2 russe, 1 serba, 1 tedesca, 1 lituana, 1 italiana. Siamo tutti d’accordo: il basket non è il calcio e i paragoni potrebbero avere poco senso, ma va quantomeno registrato che nessun tifoso di basket italiano si sente rappresentato da Milano in quanto sola squadra italiana. Chi tifava Milano continua a farlo. Chi seguiva la vecchia Eurolega con il folle sogno di parteciparci un giorno ha smesso di farlo. Anzi, le coppe minori (Eurocup e Champions League) hanno ripreso vigore proprio perché realizzano quell’antico sogno (perfino meglio, ora che alcune squadre si sono, di fatto, autoescluse) di andare in Europa e di sfidare a volte squadre dai nomi altisonanti ed evocativi, altre squadre di località sperdute. L’Eurolega non ha aumentato il suo pubblico nelle periferie. Anzi ora, al di fuori dei tre campionati principali, è appannaggio solo degli appassionati ultra-specializzati.

L’Eurolega ha un’altra caratteristica utile al paragone col calcio: non è organizzata dalla Fiba Europe, cioè il corrispettivo dell’Uefa del calcio, ma dall’Uleb, un’associazione delle leghe europee nata proprio per fare pressione sulla Federazione. E, in effetti, anche nel calcio il nodo cruciale è quello. Le squadre che spingono per una riforma completa, un campionato europeo senza promozioni o retrocessioni, hanno spesso minacciato, in passato, di fare a meno dell’Uefa e, a seconda dei periodi e dei presidenti, la federazione ha reagito in maniera più o meno accomodante, ma tenendo sempre il coltello dalla parte del manico: la Juventus o il Real si iscriverebbero a un campionato europeo organizzato da un ente diverso dall’Uefa se l’Uefa, per ripicca, gli impedisse di partecipare al campionato nazionale? Chissà se un giorno lo sapremo.

Dubbi e questioni da risolvere

Che sia basket o calcio, il nodo cruciale è lo stesso. Le continue riforme della CL hanno provato a tenere assieme due impostazioni difficili da conciliare: essere aperta a quante più nazioni europee possibile e avere le migliori squadre d’Europa. Due posizioni contrastanti perché è sempre parso chiaro che dell’Nba ci interessa solo il modello economico e per nulla quello sportivo. Il sistema americano regge infatti su un equilibrio tra economia e sport che il pubblico avverte e apprezza da anni. Senza i draft e i salary cap, senza insomma quel sistema che negli Stati Uniti garantisce l’alternanza dei vincitori, qualsiasi importazione europea di quel modello non potrà che essere uno scimmiottamento, un sistema retto sul potere economico dei multimiliardari, che siano fondi cinesi, arabi o vattelapesca. Trovare un modo perché le squadre ai vertici non siano sempre le stesse (come fanno appunto draft e salary cap) sì che sarebbe rivoluzionario, e infatti nessuno sembra pensarci. Né le poche norme sui bilanci ora in vigore sono sufficienti, facilmente aggirabili come sono e, a dirla tutta, palesemente ridicole.

Anche i giochi tipo Fantacalcio hanno abituato tanti spettatori ad andare oltre il campanile. A essere tifosi di partite a cui non erano immediatamente interessati, a conoscere, interessarsi, tifare e seguire squadre e calciatori che non pensavano avrebbero mai seguito.

L’impressione è che in questo momento la CL riesca sempre più a imporsi sul mercato globale come evento ma, per assurdo, proprio nell’Europa in cui si gioca è più complicato rompere la tradizione. Ci sono tre punti di cui qualsiasi ulteriore riforma del format in senso progressista (e si dovrebbe riflettere anche sul fatto che il campionato europeo sembri a tutti una necessità progressista) dovrà tenere conto, alla luce di quanto osservato in questi anni. 1. Se hai sempre tifato contro una squadra perché nel tuo Paese quella squadra è imbattibile, è difficile avere la lucidità per tifarla o seguirla in una Lega europea. 2. Le differenze tra Paesi sono tali che per quanto si possa provare simpatia per il Galatasaray o il Manchester City è difficile diventarne tifosi, se tutti attorno sono sparpagliati per interessi diversi. 3. Chi è già tifoso di una squadra si sentirà gratificato nel vederla partecipare a un torneo più prestigioso ma tra chi non lo è la percentuale di persone che si appassionerà allo spettacolo, senza tifo, è davvero esigua. È ormai chiaro a tutti che, per chi non tifa Napoli o Milan, il Napoli o il Milan in CL non saranno mai un evento irrinunciabile.

Nonostante tutto questo, la Lega europea sembra a tutti più vicina. E quando si gioca Barcelona-Real Madrid o il derby di Manchester contemporaneamente a Bologna-Fiorentina o Torino-Palermo la vicinanza con il campionato italiano non conta più molto. L’interesse vira altrove. Innanzitutto per una questione semplice: il mondo è “rimpicciolito”. Poi perché sono in atto una serie di meccanismi fruttuosi che, spesso in maniera totalmente indipendente dalle iniziative di club e Uefa, hanno contribuito ad alimentare l’interesse per le manifestazioni internazionali.

La forza dell’internazionale

Prima di tutto il gioco è più divertente. Anche grazie ad alcune modifiche al regolamento realizzate a cavallo tra 1990 e 2000 (“ma non miglioriamolo troppo”, come direbbe un noto autore tv, se pensiamo alle ultime proposte di Van Basten), lo spettacolo calcistico vero e proprio, le partite insomma, negli ultimi anni è migliorato parecchio. Non sono solo i giornalisti a non dire più che le partite sono noiose, è reale che si giochi meglio. Questo ha fatto sì che il calcio rimanesse al passo con i tempi pur in un mondo in cui la quantità dell’intrattenimento disponibile, non solo sportivo, è in costante aumento. Non è affatto una cosa da poco.

In secondo luogo la diffusione di un giornalismo sportivo di maggior qualità, sia scritto sia in tv, ha fatto sì che ci si appassionasse a uno spettacolo di qualità invece di limitarsi a seguire la propria squadra del cuore. Spiegare come riconoscere i bravi calciatori, analizzarne le tattiche, essere insomma riusciti a “educare” una parte del pubblico a un trattamento maturo del calcio è un meccanismo efficace perché poi quel pubblico ritorna. Una volta che ha compreso la differenza tra Neymar e il Borgorosso, vorrà vedere più spesso Neymar anche se non gioca nel suo Borgorosso.

E in ultima analisi, e questa era la cosa meno semplice da immaginare, la diffusione di giochi e scommesse ha fatto sì che si diffondessero tanti appassionati a calciatori e risultati, a prescindere dal più immediato tifo sportivo. Non solo le scommesse con possibilità di vincite economiche, anche soltanto i giochi tipo Fantacalcio hanno abituato tanti spettatori ad andare oltre il campanile. A essere tifosi di partite a cui non erano immediatamente interessati, a conoscere, a interessarsi, a tifare e a seguire squadre e calciatori che non pensavano avrebbero mai seguito. E forse, anche per il futuro, se davvero la CL volesse trovare una forma definitiva dovrebbe concentrarsi proprio su questo genere di tifosi.


Arnaldo Greco

Nasce a Caserta e vive a Milano, dove lavora per la tv. Ha scritto per Il Venerdì, IL, Rivista Studio, Il Post, Il Mattino.

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