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Serie tv

C’era una volta la Damsel in Distress

Altro che damigelle in attesa di qualcuno che le salvi! Le donne delle serie tv  stanno ribaltando, un passo alla volta, stereotipi di lunga durata. Unite, cattive, libere.

Quando, nel 2012, è uscito nelle sale Brave, Disney ha compiuto una cesura netta con il passato. Per la prima volta, metteva al centro della storia una ragazza, Merida, indipendente e coraggiosa, che con determinazione rifiutava l’idea del matrimonio come solo obiettivo da perseguire nella vita. E affermava che la felicità non si trova solo in un uomo o nelle nozze, abbandonando uno degli stereotipi più antipatici di sempre: la damsel in distress. Un topos antichissimo, che risale al mito greco di Andromeda – immobilizzata, nuda e incatenata a una roccia – e che si ritrova in gran parte della narrativa d’avventura.

Biancaneve e i sette nani (1937) o La bella addormentata nel bosco (1959) sono tra i classici Disney più noti, ma sono anche esempi di ragazze di bell’aspetto, prive di spessore e caratterizzazione psicologica, che attendono di essere salvate da un principe/eroe. Questa rappresentazione stereotipata delle donne ha portato più di una critica a Disney, convincendo l’azienda – stabilmente al centro di un immaginario collettivo basato sul “make people happy” – a modificare la rappresentazione della figura femminile. Merida, Elsa e Anna (le protagoniste di Frozen), e ancora Moana (uscito in Italia con il titolo Oceania) sono la risposta ai profondi mutamenti che nella cultura moderna hanno condotto a una ridefinizione dei ruoli di genere: eroine forti, libere e indipendenti, attive e non passive, artefici del proprio destino.

Badass in distress

Che negli ultimi anni la serialità televisiva sia diventata l’habitat naturale per raccontare le donne e rinnovare l’immaginario femminile è sotto gli occhi di tutti. Persino quelle tratte dal mondo dei fumetti, storicamente dominato da protagonisti maschili, salvo rare eccezioni (Wonder Woman), hanno iniziato a tratteggiare personaggi femminili più complessi e sfaccettati, al di là dei cliché di genere: da una parte la ragazza rapita e poi puntualmente salvata dall’eroe (si pensi a Lois Lane, Mary Jane Watson) e dall’altra la supereroina perfetta e irreprensibile, quasi sempre vestita in modo sexy. Si pensi a Marvel’s Jessica Jones, su Netflix dal novembre 2015, con al centro una ex supereroina fortissima ma anche molto umana, una donna complicata con le sue debolezze e fragilità (e che per certi versi ricorda Buffy Summers…).

Partendo dal fumetto Alias di Brian Michael Bendis e Michael Gaydos, la showrunner Melissa Rosenberg ha messo in scena un thriller psicologico realistico, crudo e dark, centrato interamente sulle donne. Jessica soffre di disturbo da stress post traumatico, è cinica, sboccata, asociale e dipendente dall’alcool. Un’antieroina che tenta di andare avanti con la sua vita e di dimenticare un passato di abusi e violenze. Non ha un costume – Jessica indossa spesso giubbotto di pelle, jeans e stivali da motociclista – e il suo obiettivo è pagare le bollette e arrivare alla fine del mese. Solo il ritorno di Kilgrave, l’uomo che per sei mesi ha abusato di lei, la costringe ad affrontare il trauma e a trovare la forza necessaria per sconfiggere il suo carnefice, da sola. Quando Luke Cage le offre aiuto, lei rifiuta senza esitare. Jessica non vuole essere salvata dagli altri, non ne ha bisogno: non è una ragazza in pericolo, ma una “badass in distress”. E non basta. Al suo fianco troviamo altrettante donne coraggiose e determinate, come la migliore amica Trish Walker, una “partner in crime”, e l’avvocatessa Jeri Hogarth, donna spietata e senza scrupoli che nel fumetto era un personaggio maschile, a conferma della totale inversione dei ruoli nella serie. Luke Cage, infatti, qui è solo l’interesse amoroso in pericolo per causa di Jessica; mentre Malcolm Ducasse, amico della protagonista, è la vera “damsel in distress” che Jessica deve mettere in salvo più volte.

Jessica Jones non vuole essere salvata dagli altri, non ne ha bisogno: non è una ragazza in pericolo, ma una “badass in distress”. E non basta. Al suo fianco troviamo altrettante donne coraggiose e determinate.

La rottura del loop

Un simile ribaltamento dei ruoli di genere si riscontra anche in Westworld, tratta da un film del 1993, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e da loro coprodotta insieme a J.J. Abrams per Hbo: uno sci-fi distopico ambientato in un futuro prossimo in cui è stato creato un parco a tema western popolato da androidi identici agli umani, per soddisfare ogni desiderio e istinto più basso degli uomini. Tra i robot, chiamati “host”, spicca il personaggio di Dolores: una ragazza bella, dolce e innocente, che incarna la fanciulla indifesa da salvare, una sorta di principessa Disney del Far West. Ma in quanto oggetto sessuale, costruito secondo il complesso vergine-prostituta per appagare le fantasie dei visitatori del parco, ogni giorno deve assistere inerme alla morte del padre e del suo amato Teddy, poco prima di essere stuprata. In un eterno loop, senza mai fine. Almeno finché Dolores non inizia a percepire le incongruenze e menzogne che la circondano e a reagire ai suoi aggressori.

Ben presto la ragazza diventa insofferente al ruolo che le è stato affibbiato: “Ho immaginato una storia nella quale non dovevo essere la damigella da salvare”, dichiara nel quinto episodio, dopo aver sparato ad alcune guardie, mettendo in salvo se stessa e il suo compagno di avventure William (un umano in visita nel parco). Nello stesso episodio, la ragazza abbandona l’abito lungo e ingombrante per vestire i panni di una vera cowgirl a simboleggiare una profonda trasformazione. Agli host non è consentito prendere decisioni che non siano già state programmate, non è permesso fare male agli umani. Eppure, puntata dopo puntata, Dolores intraprende un lento, doloroso percorso di autocoscienza, un viaggio alla riscoperta di sé (non a caso, i riferimenti ad Alice nel Paese delle Meraviglie sono numerosi) che le consente di porre fine all’infinito loop e di acquisire il libero arbitrio. Per essere finalmente libera di essere ciò che vuole. Non più vittima, né martire, né donzella in pericolo.

Grandi piccole amicizie

“Le amicizie sono i capolavori della natura”.

(Big Little Lies)

Che si tratti di supereroi o di intelligenze artificiali, è evidente che nella serialità tv contemporanea la figura femminile, spesso vittima di maltrattamenti e abusi sessuali, non attende di essere messa in salvo, ma reagisce e trionfa sul suo carnefice. Da sola o grazie alla solidarietà delle altre donne. In Big Little Lies, sempre di Hbo, un misterioso delitto che funge da pretesto per raccontare la storia di Madeline, Celeste, Jane, Renata e Bonnie: cinque donne diverse ma anche molto simili, tratteggiate con ricchezza psicologica. Le protagoniste sono madri, mogli, amiche e nemiche, che, accomunate da una voglia di riscatto e da una sottile rabbia repressa, mettono da parte le divergenze per allearsi e difendere Celeste dal marito Perry, un uomo violento che si scoprirà essere anche lo stupratore di Jane.

Celeste – ex avvocata che ha lasciato il lavoro per la famiglia – è intrappolata in un matrimonio malsano, vittima di violenze domestiche, trattata come una proprietà del marito. Quando decide di lasciare Perry, questo in preda all’ira inizia a picchiarla senza pietà davanti alle altre, a una festa di beneficenza. Allora Madeline, Jane, Renata e Bonnie intervengono in aiuto di Celeste, come una sola persona, un’onda minacciosa che si infrange sugli scogli – come mostrano le immagini del mare che intervallano la scena –, metafora della loro forza. Allo stesso modo le donne faranno fronte compatto per evitare che l’accusa di omicidio ricada su Bonnie: se è quest’ultima ad aver dato la spinta finale che uccide Perry, sono tutte ad aver lottato con uno sforzo collettivo. La figura maschile nel ruolo di eroe scompare del tutto dalla scena, i rispettivi mariti non arrivano mai in soccorso e Perry è letteralmente accerchiato e sconfitto da queste donne che, insieme, riescono a darsi forza e proteggersi a vicenda.

In Big Little Lies, la figura maschile nel ruolo di eroe scompare del tutto dalla scena, i rispettivi mariti non arrivano mai in soccorso e Perry è letteralmente accerchiato e sconfitto da queste donne che, insieme, riescono a darsi forza e proteggersi a vicenda.

Sorellanza e riscatto

“Non avrebbero mai dovuto darci delle uniformi se non volevano che diventassimo un esercito”.

(The Handmaid’s Tale)

La solidarietà femminile è alla base della ribellione anche nel finale di The Handmaid’s Tale, serie tv di Hulu non a caso acclamata agli Emmy Awards 2017 e ai più recenti Golden Globe. Tratta dal romanzo distopico di Margaret Atwood, è ambientata in un’America totalitaria che ha reso schiave le poche donne fertili, costrette a rapporti non consenzienti per sopperire all’elevata denatalità. Protagonista è l’Ancella Offred, priva di ogni diritto e persino del nome (Offred significa “proprietà di Fred”).

Nel libro Offred è presentata come una donna passiva, inerme, che infrange le regole dell’oppressivo sistema patriarcale in modo silenzioso e nascosto, concedendosi al piacere del sesso e registrando le sue memorie. Il suo obiettivo è sopravvivere, non ribellarsi. Malgrado non sia chiara la sua sorte, si presume che alla fine sia messa in salvo da Nick (con cui ha una relazione segreta), accettando il ruolo di “damsel in distress”. Diversa è invece la Offred del piccolo schermo, più combattiva ed esuberante. Come dice il creatore Bruce Miller, nel pilot la protagonista rivela il suo vero nome, June (mai dichiarato nel libro), come primo passo per riaffermare la sua identità; in un flashback la vediamo manifestare in piazza dopo che le donne hanno perso tutti i diritti; ed è proprio lei a guidare l’ammutinamento delle ancelle.

Nell’ultimo episodio della stagione, durante la Partecipazione (cerimonia che spinge le donne a linciare uomini considerati eversivi dal governo), Offred rifiuta di uccidere l’ancella Janine, ribellandosi all’ordine ricevuto, e con il suo atto eroico spinge le altre a fare lo stesso, trovando insieme il coraggio di sfidare il sistema. Come in Big Little Lies, Janine è salvata dalla sorellanza delle ancelle, che percorrono la strada verso casa trionfanti. Offred non è una ragazza spaventata e indifesa che ha bisogno d’aiuto, ma, come ha notato il New York Times, un eroe della resistenza che guarda il mondo con occhi di sfida e non di terrore. Non è Nick a salvarla e a darle speranza. Ma la solidarietà femminile, la consapevolezza di non essere sola. C’è ancora qualcuno che non si è arreso ed è pronto a combattere al suo fianco.

Un clima culturale in fermento

Non sorprende allora che The Handmaid’s Tale abbia ispirato molte manifestazioni e proteste in diversi stati americani ed europei per la difesa dei diritti delle donne, specie sul tema dell’aborto; e che sia diventata la serie manifesto della nuova ondata del movimento femminista. Tutte queste storie sono il risultato di un clima culturale in fermento e di una tv sempre più impegnata e attenta a temi come la maternità, lo stupro e il rapporto tra i sessi. Se le serie tv sono il medium che meglio racconta lo spirito del nostro tempo, questo universo televisivo femminile eterogeneo mette in scena aspirazioni, desideri e paure delle donne di oggi. Dove lo stereotipo della “damsel in distress” è messo in discussione, ribaltato e infine abbandonato. Pronto a lasciare il posto a donne complesse, emancipate, brillanti e fuori dal comune: reali. Perché, come ricorda Unbreakable Kimmy Schmidt, “females are strong as hell”.


Manuela Stacca

Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.

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