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Storie factual

Diversi come voi

Come sta cambiando il racconto delle persone transgender in tv, dalle lezioni di tolleranza all’aumentare delle sfumature (passando per Caitlyn Jenner).

Quando si parla di come viene raccontata una minoranza, entra spesso in gioco il termine problematic. Tradurlo in italiano con “problematica” non rende del tutto l’idea. Proviamo con una frase: una persona problematic mette disordine per il modo in cui lei si comporta, le cose che dice e che pensa. Un film o un romanzo bollati come problematic cancellano vent’anni di battaglie politiche con una battuta di cattivo gusto. Il mondo è pieno di serie tv da cancellare, celebrità da boicottare, portavoce da rinnegare. La parola problematic è un sinonimo di inaccettabile.

Non sono conversazioni felici, quelle in cui si discute sulla rovina dell’umanità cercando qualcuno a cui dare la colpa. Lo stesso, per chi fa parte di una minoranza, ogni parola e ogni immagine pesa come una pietra. Ogni storia può diventare il teatro di uno scontro. Da una parte c’è un noi, dall’altra c’è un voi. Quando una minoranza guadagna visibilità, il noi che viene presentato al pubblico deve essere inattaccabile. Esemplare. La perfezione. Il voi deve essere informato, mai spaventato, deve capire il messaggio: noi siamo diversi… proprio come lo siete voi. Guardate come siamo normali. Noi non siamo strani. Non potete eliminarci.

Il grande noi degli ultimi mesi, nel documentario televisivo, sono state le persone transgender. I racconti che le vedono protagoniste sono lezioni di tolleranza pensate per il voi, a partire dai titoli: Becoming Us (Diventare noi), I Am Jazz (Mi chiamo Jazz), New Girls on the Block (Le nuove arrivate). A volte i noi di turno sono anche consulenti del programma, a volte si parte da un’idea e poi si cercano i corpi adatti a portarla in scena. Si prendono persone vere per calarle dentro un tipo di storia che il voi già conosce da almeno dieci anni. Becoming Us è una commedia drammatica adatta alla prima serata, con le incomprensioni a lieto fine tra un padre e un figlio adolescente (solo che il papà ora è una donna, Carly); I Am Jazz è il ritratto di una famiglia modello, riunita intorno alla figlia minore, la quattordicenne Jazz (nata con il nome Jared). New Girls on The Block è un reality basato su sei donne che bevono il caffè in un ristorante di provincia. (Se fossero ricche, oltre che donne, berrebbero vino bianco sedute su un divano). Alcuni noi sono più consapevoli del loro ruolo, forse. Jazz e i suoi genitori hanno cominciato ad apparire in tv quando la bambina aveva sei anni e un’identità femminile sicura, perché la loro storia fosse un buon esempio. Potrebbe aver aiutato qualcuno, potrebbe aiutarlo ancora. Chi lo sa. Nella narrazione del “dare il buon esempio” non può essere lasciato spazio a nessuna ombra, nessuna incertezza. Si parla tanto dell’essere autentici, mentre il discorso segue percorsi obbligati. Siamo tutti una grande famiglia! È importante accettare la nostra vera natura!

Queste sono prediche necessarie, è chiaro. Vogliono cambiare il mondo a partire da voi. Ma c’è un piano di realtà da affrontare. La comparsa improvvisa di cento documentari su un noi, qualsiasi noi si ritrovi i riflettori puntati addosso, lascia indifferente il 90% del voi – magari il voi si commuove un attimo, magari capisce che l’argomento è urgente, ma non ne afferra il motivo, non trattiene quasi nulla della storia in sé. Nel giro di un anno si può passare da “mai visto niente di simile” a “accidenti, questa gente sta ovunque”. E il noi, che si considera emarginato quando non può dire la sua, questi cento documentari li aspetta al varco, tutti quanti: appena si esce dai binari accettabili, appena c’è una battuta o un’inquadratura sbagliata, scatta la protesta. Per forza. Non si può raccontare una storia e compiacere tutte le parti in causa. Gli autori che scelgono il racconto si soffermano su quello stacco tra noi e voi, sulle divisioni all’interno del noi, su quali conseguenze possa avere, in concreto, il desiderio di educare gli altri, di “presentarsi bene” agli occhi di un estraneo.

Nella narrazione del “dare il buon esempio” non può essere lasciato spazio a nessuna ombra, nessuna incertezza. Si parla tanto dell’essere autentici, mentre il discorso segue percorsi obbligati.

Durante il documentario Transgender Kids, il giornalista Louis Theroux va a incontrare una piccola parte del noi: i ragazzini che vogliono sottoporsi a terapie ormonali prima della pubertà, i genitori che sostengono la loro scelta e quelli che dicono “no, è troppo presto”. Theroux si assegna il ruolo dell’ospite beneducato. È civile, ma rimane un ospite, un visitatore. In qualsiasi casa entri, lui non è uno di noi. Quindi si può permettere di fare domande che portano alla luce il margine di ambiguità in una situazione. A queste famiglie e ai loro medici, Theroux chiede, “cosa succede se i bambini prendono gli ormoni, ma dopo cambiano idea? Potrebbe capitare? Chi si prende la responsabilità delle decisioni?”. Dove i genitori non hanno trovato l’accordo, e il figlio non sta seguendo alcuna terapia, Theroux dà la parola a tutti e tre, senza tirare una linea tra buoni e cattivi. Forse è solo una fase, dice il padre, deciderà nostro figlio cosa fare quando lui sarà grande, se vorrà fare qualcosa. No, non è solo una fase, dice la madre, nostro figlio si è confidato con la psicologa, ha detto che si sente femmina, ma adesso ha paura di ferire suo padre. Da grande mi sposerò e avrò una famiglia, dice il bambino mentre gioca. Il valore di Transgender Kids sta nel non mostrare un mondo compatto dove tutti ripetono “stiamo bene, siamo autentici”. Bastano pochi tratti per restituire la vita all’immagine. Basta avere, in fondo, la consapevolezza che ci sono altri mondi là fuori, e ci sono molte maniere diverse di raccontarli.

Nelle settimane in cui Transgender Kids va in onda sulla BBC, è commentato e ripreso in tutto il mondo, una persona transgender sta portando in scena se stessa utilizzando la cornice narrativa a lei più familiare: donne sedute sul divano con un bicchiere di vino bianco. Caitlyn Jenner, star e co-produttrice di Io sono Cait, affronta la sua transizione in maniera pubblica. Non ha scelta, considerando il resto della sua vita: medaglia olimpica per il decathlon nel 1976, volto sorridente di tante campagne pubblicitarie, dieci stagioni di Al passo con i Kardashian insieme alla sua ex moglie e ai loro numerosi figli, due anni di paparazzi che la seguivano gridando “Bruce, è vero che diventi donna?”. Uscire allo scoperto per lei era una questione di tempo. Quando succede, però, va tutto molto in fretta: nell’arco di quattro mesi arrivano la sua ultima intervista come Bruce Jenner, una puntata speciale insieme alle ragazze Kardashian, la prima fotografia di Caitlyn sulla copertina di Vanity Fair, il debutto del docu-reality dove la protagonista assoluta è lei. E qui la parola problematic le si appiccica addosso. Io sono Cait è la storia di Caitlyn che presenta la sua nuova vita da donna, ma è anche la storia di Caitlyn che dice “voglio fare del bene, voglio cambiare il mondo”, e cerca di diventare l’ambasciatrice di cosa si prova a essere trans. Purtroppo, secondo quel noi, Caitlyn Jenner non è una di noi. Non è abbastanza diversa. Appartiene ancora al voi. Caitlyn è ricca e vuole apparire il più femminile possibile, ha rapido accesso a tutto quanto desidera, dagli abiti alle procedure chirurgiche, mantiene idee molto convenzionali su cosa significhi “essere una signora” e “comportarsi da uomo”. Non va bene. Il noi la rifiuta, il 90% del voi adotta la solita cordiale indifferenza. A questo punto la storia diventa più reale. Cambia. La seconda stagione di Io sono Cait porta in primo piano la reazione ostile della comunità, le proteste pubbliche, i cartelli con scritto Noi non siamo Cait. In una serie su cui esercita un buon controllo, Caitlyn accetta di apparire sbagliata: alza la voce, respinge le critiche, è troppo concentrata su se stessa. Non è la portavoce ideale di nessuno, anche se lei vorrebbe. Ecco il suo vero punto di forza. Permettendo all’imperfezione di essere parte della storia, la storia si apre, si allarga. La serie si intitola sempre Io sono Cait, ma le donne che girano intorno a Cait – attiviste, attrici, docenti universitarie – acquistano un’importanza maggiore. La storia diventa l’umanità di Caitlyn, il suo desiderio di “cambiare il mondo” intrecciato agli errori che commette lungo la strada. Le donne si siedono sul divano con un bicchiere di vino bianco e discutono per cinque minuti sulla storia della parola tranny. Caitlyn dice “non voterei mai Hillary Clinton”, oppure “lo stato sociale sta rovinando l’economia”, e si sente rispondere, “amica, se vuoi cambiare il mondo devi sforzarti di conoscerlo”. Quando lei difende il suo punto di vista, noi vediamo una persona aggrappata a quelli che prima erano i suoi valori normali. Vediamo la possibilità che lei cambi, vediamo la possibilità che non cambi. Questa è una storia che contiene un margine di ambiguità: tante imperfezioni, pochi punti saldi. Questa è una storia.


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (2014), ha fatto parte di L’età della febbre (2015), Ma il mondo, non era di tutti? (2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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