immagine di copertina per articolo Per cui la quale. Abbiamo ancora bisogno del varietà?
Mika House

Per cui la quale. Abbiamo ancora bisogno del varietà?

Sempre sul punto di morire, e sempre sul punto di rinascere, il varietà mantiene spazi importanti sulla tv generalista. Tra stanca ripetizione e strade alternative.

Il mio maestro delle elementari era un tipo davvero particolare: alto due metri, portava camicie a maniche corte anche d’inverno e, quando un bambino commetteva un atto imperdonabile tipo, ehm, distrarsi, sceglieva a casaccio cinque di noi, li metteva in fila e poi li colpiva uno a uno con una sonora bacchettata di legno sul cranio. Ma non posso volergliene. Era un grande appassionato di televisione. Ogni mattina, prima di iniziare a spiegare, ci parlava di quello che aveva visto la sera precedente o nel weekend (FantasticoIndietro Tutta, Celentano, Il Trio) o ci faceva cantare tutti assieme Sì la vita è tutto un quiz. Oggi lo chiamerebbero in tv a fare l’opinionista (magari dopo avere scontato la pena per violenze immotivate su minori), ma allora era semplicemente qualcuno con una discutibile scala delle priorità didattiche: varietà first, tabelline poi. Che importa della matematica quando hai un maestro così. C’è da considerare che spesso parlava di show che molti di noi non potevano guardare. Ma, a differenza dello smarrimento dei miei compagni, io provavo solo gratitudine: da grande volevo già essere Pippo Baudo ed ero già ossessionato dalla storia della televisione (“Nonna, cosa hai pensato la prima volta che hai visto un programma?”) e dalle sue ricadute (“Nonna, perché ogni volta che compare Corrado in tv non rispondi più alle mie domande? Nonna?”). Chi si assomiglia si piglia, grazie Maestro.

Ogni anno, caschi il mondo, arrivano le prime indiscrezioni sulla nuova stagione televisiva e puntualmente sento un brivido di eccitazione, come quando con mio cugino guardavamo di nascosto Colpo grosso. Il gusto di fare qualcosa di proibito. Il varietà è morto e non importa più a nessuno ma, come l’Araba Fenice, risorge a ogni autunno della mia vita. E io sono sempre davanti alla tv, a sperare non si sa bene cosa, anche se tutto si è irrimediabilmente complicato. Secondo la Garzantina che ho tra le mani (ed. 1996), varietà è sinonimo di spettacolo leggero, ovvero “uno dei tre macrogeneri della tv assieme all’informazione e alla fiction”. Wow, com’era tutto più semplice (poi dice perché uno vorrebbe solo urlare “ridatemi il Postalmarket al gusto YouPorn”). Il varietà, ma anche il suo contrario, il canto e il controcanto. Tutto era spettacolo leggero. E tutti ne parlavano. L’impatto sulle nostre vite era qualcosa di concreto. Se mi avessero detto “Sai che tra trent’anni scriverai un pezzo sul varietà e sul tuo maestro e su quello che ti ha fatto diventare?”, beh, ci avrei creduto (ma non avrei creduto che in pochi lustri le cose sarebbero diventate così drammatiche: la mia ostinazione nell’occuparmi di tv generalista ha a che fare con questo stupor mortis a cui non riesco proprio a rinunciare).

La leggerezza adesso è ovunque, pure dove non la vorremmo, hashtag per tutte le stagioni e per ogni fascia oraria. I talent e la tv del Pretesto hanno allagato la scena dell’intrattenimento. E il varietà? Da unico centro è diventato banale periferia, magari graziosa, magari piena di giardinetti e piste ciclabili, un luogo in cui tutti hanno, perché no, voglia di farsi un giro ma dopo cinque minuti non vedono l’ora di andare altrove (“Ma c’è un modo legale per abbonarsi a Hulu?”). E allora perché ostinarsi a produrre nuovi titoli e a perdere tempo guardando programmi che i post-millennials considerano alla stregua delle cassettine Tdk? Conseguenza di un grosso, grosso malinteso. 

Il varietà è morto e non importa più a nessuno ma, come l’Araba Fenice, risorge a ogni autunno della mia vita. E io sono sempre davanti alla tv, a sperare non si sa bene cosa, anche se tutto si è irrimediabilmente complicato.

L’illusione delle Teche

Techetechetè è il più rilevante fenomeno televisivo dell’ultimo decennio grazie alla ricombinazione dei nostri ricordi: quelli reali e quelli che nemmeno immaginavamo di avere. Se la quasi totalità della tv di oggi non ha ragione di esistere al di là della digestione post-prandiale, Techetechetè va a cercarsi il senso nei riverberi e negli echi di quel che siamo stati e (non) potevamo essere. Un senso circondato da ovatta e da morbide nuvolette rosa. Techetechetè è puro dreampop, è Lana Del Rey che mi sussurra Sarai sempre giovane e innamorato, è il Lower East Side cantato dai Cigarettes After Sex, eterno luogo dei miei sogni mai spezzati, illusione di qualcosa nato già perfetto: il regista indugia sulle cosce delle giovani Raffaella e Mina e di colpo le stragi e i colpi di Stato sventati non sono mai esistiti. Ah com’era bello una volta, com’era tutto più semplice. La memoria è selettiva, ma ancor di più gli autori televisivi. Se una qualsiasi puntata di Techetechetè fa il triplo di ascolti della replica integrale di un varietà normale, il motivo risiede nell’uso spregiudicato non tanto della nostalgia ma dell’idea che col tempo ci siamo fatti della nostalgia. Riesce a spostare l’attenzione sulla loro ingenuità, titillando cinicamente il dolore del ritorno a un’infanzia felice proprio perché percepita come una linea dritta senza scossoni: consolazione per un presente che non proviamo nemmeno ad affrontare anche perché nessuno può prendersi la briga, adesso, di rimontarlo e riscriverlo cancellando le cose brutte e cattive. Riparliamone tra una quindicina d’anni.

Intanto tutto ciò si ripercuote come una iattura su una tv generalista che si è incagliata a riva, ha tirato i remi in barca e attende solo che arrivi qualcuno a impartire l’Estrema Unzione. Il successo inarrestabile di Techetechetè illude i decisori del servizio pubblico di poter replicare all’infinito un modello più o meno riuscito di spettacolo che guarda ancora alle mille luci, ma serve solo a deludere chi come me è stato esposto alle radiazioni luminescenti della perfezione televisiva. Un modello costruito intorno a una o due Grandi Personalità dello Spettacolo Italiano e nutrito a colpi di ospiti, duetti, omaggi, medley, cover, altri ospiti, altri duetti, altri omaggi, altri medley, altre cover. Una processione estenuante. E inutile, se ogni volta il motore è puntato, indietro tutta, verso una destinazione che, duole dirlo, non esiste: guardo l’ennesimo medley degli ennesimi duetti e non riesco nemmeno a capire se siamo negli anni Zero o negli anni Dieci. Non importa quanto lo spettacolo in questione sia riuscito, elegante, teatrale, premiato dagli ascolti. Importa più l’idea che c’è sotto: fingere il Nuovo, cercando di occultare una banale logica da magazzino.

Sogno o son desto, Laura e Paola, Cavalli di battaglia, Un, due, tre… Fiorella: tutti i varietà di Raiuno degli ultimi anni non sono riusciti a sganciarsi da un modello equivoco di Passato in cui la retromarcia è considerata àncora di salvataggio, ma in realtà è solo una scorciatoia. Risultato: programmi con scalette simili, ospiti usati come turnisti a progetto e la continua sensazione di nessun passo avanti e molti indietro. Persino quando lo spunto iniziale è vincente si finisce per addomesticare tutto con il refrain del “Ti ricordi?”. Nemicamatissima, con Lorella Cuccarini e Heather Parisi, aveva la possibilità di far esplodere questo modello, giocando per esempio con le sacrosante pulsioni anti-nostalgiche e riottose di “Heather Parisi che non vuole ballare per non sentirsi ridicola alla sua età”, “Heather Parisi che tiene ostentatamente il muso mentre Cristina D’Avena e Lorella Cuccarini cantano Occhi di gatto e i trentaquarantacinquantenni all’ascolto fingono di non sapere che la vita faceva schifo allora come oggi”. E invece niente, tutto come previsto: ancora delusione, ancora un grande senso di incompiuto. Siamo sicuri che non esista altro varietà all’infuori di te?

Un modello costruito intorno a una o due Grandi Personalità dello Spettacolo Italiano e nutrito a colpi di ospiti, duetti, omaggi, medley, cover, altri ospiti, altri duetti, altri omaggi, altri medley, altre cover. Una processione estenuante. E inutile, se ogni volta il motore è puntato, indietro tutta, verso una destinazione che, duole dirlo, non esiste: fingere il Nuovo cercando di occultare una banale logica da magazzino.

Strade alternative

“Buonasera Italia, sono Mika e questa è casa mia. Ho creato un piccolo mondo dove tutto è possibile” (Stasera Casa Mika)

“Buonasera, questa è la casa degli imprevisti. Può succedere di tutto!” (House Party)

La tv è proprio buffa. Mesi ad aspettare uno straccio di novità e poi ecco che in poche settimane Raidue e Canale 5 prendono la stessa idea e la moltiplicano per due. Certo, l’acqua è calda come sempre, diciamo pure tiepida. Se non è famiglia è casa, e dunque focolare, e dunque tinello. Al contrario di altri esempi sventurati, la cornice narrativa della casa non esaurisce il bacino delle idee e anzi si cerca di usarla come trampolino che possa andare al di là dei medley e delle cover. Al centro il carisma e la personalità del performer Mika e della conduttrice Maria De Filippi (nella prima puntata di House Party, la più riuscita) e, a cascata, tutto il repertorio di quello che sanno o possono fare. Due sviluppi in linea con quello che sono oggi il servizio pubblico (Ballandi) e la tv commerciale (Fascino). Da un lato l’eleganza e l’ingenuità di chi riesce in tutto quello che fa e può permettersi di essere se stesso, ovvero una persona buona. Dall’altro la padronanza assoluta di chi ha raggiunto un’intesa magica con il proprio pubblico e sa esattamente cosa proporgli, senza dimenticare una vocazione iper-generalista che, finalmente, osa uscire da territori già battuti in lungo e largo.

A differenza del modello di Raiuno, in cui qualsiasi spettatore-medio può ipotizzare in linea di massima una scaletta non così dissimile da quella che verrà usata per costruire poi lo show, in questi due esempi, ogni tanto, arrivano dei sussulti. In Stasera Casa Mika l’intuizione vincente del Team Ivan Cotroneo sta nell’aver portato il padrone di casa fuori dallo studio, con le candid-camera sui taxi e le incursioni nelle orchestre musicali dell’Italia sommersa e nascosta. In House Party la personalità artistica di Giuliano Peparini (uno che i varietà li ha frequentati) riesce a mettere le prodezze coreografiche al servizio di una visione precisa del mondo. Continuando il lavoro fatto ad Amici (e sull’ideale scia proprio del Cotroneo di Tutti pazzi per amore) Peparini riesce a produrre uno strano mix di spettacolo e pedagogia come nella performance sull’Hiv della seconda puntata, che colpisce come un pugno proprio per l’apparente incongruenza con il resto dello spettacolo. Sono passati anni luce da quando Celentano in prima serata nominava la parola Aids tra le risate incoscienti del pubblico. Certo, in entrambi i casi la sensazione è che si potesse osare di più (in particolare House Party ha sofferto la tripla personalità) ma, almeno, hanno avuto il merito di provare a guardare in un’altra direzione.

Il varietà deve essere dunque qualcosa di immutabile perché in fin dei conti è questa la sua vera natura, o al contrario deve aprirsi al mondo e sintonizzarsi con quello che succede là fuori? Se potessi avere un’ultima conversazione con il mio maestro delle elementari probabilmente non troveremmo un punto di incontro. Lui inizierebbe a cantare Il materasso, obbligandomi a fare i coretti con la minaccia della bacchetta di legno, mentre io gli direi che non mi mancano affatto Quelli della notte, L’ottavo nano o Stasera pago io, piuttosto mi mancano varietà che possano raccoglierne il testimone e continuare a far brillare il genere più nobile della tv italiana, qualcosa che tra quarant’anni possa rivelarsi nella sua commovente alterità spazio-temporale. Gli direi che anche io, come Heather Parisi, so perfettamente come eravamo e, proprio per questo, mi piacerebbe che ogni tanto il varietà di oggi provasse a dirci anche come siamo.


Nico Morabito

Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.

Vedi tutti gli articoli di Nico Morabito

Leggi anche

immagine articolo Esterno notte, eterno Moro
immagine articolo Alex Belli, re del nuovo reality soap
immagine articolo La televisione dei corpi sovrappeso

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.