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Complicazioni social

Sembra facile. Ma aggiornare i profili social, per una popstar come Madonna, Beyoncé, Adele o Britney Spears, è un lavoro a tempo pieno. Perché l’errore è dietro l’angolo.

Di Madonna si era sempre detta una cosa: che grande comunicatrice. Anche chi non amava troppo la sua musica, anche gli osservatori distratti, anche i più accaniti detrattori, che sostenevano che non sapesse cantare (o ballare o recitare o allevare bambini), erano d’accordo: che grande comunicatrice. Poi Madonna è arrivata sui social.

Arrivare tardi, arrivare male

Per qualche anno, la fonte più attendibile per confermare o smentire notizie sul suo conto è stata il profilo Twitter del suo manager Guy Oseary, ma già nel 2012 era semplicemente strano (oltre che poco pratico) non avere una pagina attiva e ufficiale per una delle persone più famose al mondo. Forse, avendo assistito a trent’anni di rivoluzioni tecnologiche e mediatiche nel corso della sua carriera, Madonna aveva imparato a non fidarsi di tutte le novità, ma poi è diventato evidente: Twitter e Instagram non erano mode passeggere, non erano il MiniDisc o MySpace, bensì strumenti essenziali destinati a restare. Se all’inizio l’assenza di Madonna da Twitter la fa sembrare un’anticonformista, dopo un po’ la rende una specie di eremita e quindi poco al passo coi tempi (la cosa peggiore in assoluto, nel suo sistema di valori). Apre allora un profilo pubblicizzato come temporaneo per un Q&A con i fan in vista dell’uscita del suo album del 2012, MDNA. Tuttavia, la conversazione (e la notiziabilità della stessa) deraglia – non per colpa di qualche troll o webete, ma a causa di un commento del DJ deadmau5. Pochi giorni prima, infatti, Madonna aveva fatto una comparsata all’Ultra Music Festival di Miami, mega-evento dedicato alla musica dance, e dal palco aveva chiesto al pubblico: “How many people have seen Molly?”. Essendo Molly un termine colloquiale per l’ecstasy, deadmau5 rimprovera Madonna per aver vanificato la battaglia contro le droghe nella scena dance. Lei s’arrampica sugli specchi dicendo che stava solo citando un brano del DJ Cedric Gervais – e fa una figura altrettanto misera, trattandosi appunto di un brano sull’ecstasy. La questione è preoccupante comunque la si guardi: se davvero non sapeva che Molly fosse sinonimo di pasticche, è un’adulta che parla a caso cercando di imitare gli adolescenti; se lo sapeva, ha incoraggiato un pubblico di migliaia di adolescenti a fare uso di droghe. Madonna, famosa per tener testa a qualsiasi intervistatore, si dimostra inattrezzata per il dialogo online. E dopo aver graziato anche Instagram con una quantità esagerata di foto taggate #unapologeticbitch (“stronza impenitente”), commette errori social anche nella campagna promozionale dell’album successivo. Usa parole inadeguate per descrivere il leak illegale di alcune tracce inedite (“stupro artistico”, “una forma di terrorismo”) e posta la copertina del suo Rebel Heart photoshoppata in diverse versioni: il volto della cantante, avvolto da lacci neri, è sostituito da quelli di altre icone pop. Ma tra questi “cuori ribelli” ci sono Martin Luther King e Nelson Mandela. Non era stata esente da critiche quando, per la copertina di American Life nel 2003, si era trasformata in Che Guevara, ma una decina di anni dopo, grazie ai social, il rumore delle masse che si indignano è percepito in maniera diversa. Madonna fa quindi una mossa pressoché inedita: si giustifica (aveva solo ri-postato immagini create dai fan, dichiarandosi lusingata dai paragoni con grandi figure storiche) e soprattutto si scusa.

Se all’inizio l’assenza di Madonna da Twitter la fa sembrare un’anticonformista, dopo un po’ la rende una specie di eremita e quindi poco al passo coi tempi (la cosa peggiore in assoluto, nel suo sistema di valori). Apre allora un profilo, ma la conversazione deraglia.

Anche quando è guidata dalle migliori intenzioni, Madonna sembra non avere la sensibilità per capire come mostrarsi solidale online: per esempio, dopo la strage di Orlando, posta una foto del suo bacio con Britney Spears agli MTV Video Music Awards del 2003 (ovvero un’effusione, finta, tra due donne eterosessuali, per ricordare i morti in un locale gay?). In questi casi, insieme alle gaffe, arrivano puntuali i complottisti del purché se ne parli: è tutto previsto e pianificato, e le cadute (figurate o addirittura letterali, come quella sul palcoscenico dei Brit Awards nel 2015) sono sempre volute. Si tratta di teorie fantasiose che fanno sorridere, come quando Madonna (o chi per lei) posta su Instagram una vecchia foto dell’ex-sosia Paola Barale credendola sua… Ma non si confonda il gusto per la provocazione (che è tuttora presente, sebbene nell’indifferenza generale) con errori che una grande comunicatrice non dovrebbe commettere. Inoltre, per una popstar che ha sempre curato in modo maniacale l’estetica dei prodotti, il suoi account pieni di frasi motivazionali sgrammaticate e foto sgranate, rubate, sbagliate, brutte sottolineano una gestione quantomeno goffa della presenza online.

Un lavoro da professionisti

È per evitare imprevisti simili che la maggior parte degli artisti affida gli account a professionisti. Una di questi è Britney Spears, i cui feed sono sempre impeccabili, senza grossolani errori di ortografia, con tutte le emoji al posto giusto e in un perfetto equilibrio tra promozione e (presunta) autenticità. Al netto di qualche pasticcio nato dal dover anche gestire il profilo di un cane (sì, la Yorkshire terrier Hannah, Britney’s bitch, a un certo punto ha meritato un account), le pagine della Spears sono l’esempio migliore e peggiore insieme di come gestire la presenza online di una popstar. In un certo senso, i suoi social la rispecchiano: la persona pubblica è un esercizio di crisis management vivente; la persona vera chissà dov’è, chissà se esiste ancora.

Ci sono poi artisti che limitano la propria presenza sui social strategicamente. Beyoncé, per esempio, è quasi inattiva su Twitter e preferisce usare, sempre con moderazione, Instagram. Dalla piattaforma non cerca il dialogo o il contatto con i fan: è anzi uno dei suoi mezzi più efficaci per mostrarsi irraggiungibile e semi-divina, senza più pretese di spontaneità (anche i suoi scatti di Instagram sono spesso iper-ritoccati). Non ha nemmeno bisogno di commenti o didascalie che intaccherebbero o distrarrebbero dalla purezza delle immagini: una strategia appropriata per un’artista che negli ultimi anni ha quasi smesso di concedere interviste ma ha pubblicato due visual album. Adele, invece, dopo essere sparita anche dai social nell’intervallo tra due dischi, non ha nemmeno la password del suo Twitter. In un’intervista con Graham Norton ha spiegato che il suo management, dopo qualche tweet troppo alcolico, ha deciso di toglierle il diritto di schiacciare “invio”. Che sia vero o no, non importa: la missione costante della cantante è apparire come una donna qualunque, che è rimasta genuina e sboccata nonostante i soldi e la fama. Continua inoltre a creare uno scarto tra la sua età (stampata sulla copertina dei suoi album) e immagine, cercando il contatto con un pubblico molto più anziano di lei. Non le importa di sembrare una millennial vecchia dentro, anzi. Fa di tutto per fare la figura di una zia svampita che preferisce distanziarsi da certe diavolerie moderne: l’esatto opposto di Madonna.

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Una diversa questione generazionale interessa invece il gruppo più famoso del mondo. All’inizio della loro carriera, gli One Direction venivano spinti controvoglia dalla casa discografica a essere più presenti su Twitter. La piattaforma che di lì a poco sarebbe diventata il motore del loro successo non era ancora esplosa, e ribellarsi all’obbligo di twittare è poca cosa, per una boyband che è riuscita a imporsi di non ballare. Ma il loro istinto, anche in questo caso, era giusto. Si è poi scoperto infatti che un update dei ragazzi ogni tanto era percepito come speciale e aveva quindi più impatto di un fiume di tweet quotidiani: meno attività generava più interesse.

Infine, ci sono artisti la cui intera narrazione passa dai social media, che capiscono i meme che li riguardano e se ne appropriano, che sanno sfruttare appieno i mezzi anche nei gesti più insignificanti. Per esempio, nel momento in cui Twitter abilita l’auto-retweet nell’estate 2016, Katy Perry recupera un suo post dell’anno prima, che suona come un velato “ve l’avevo detto”. Non sceglie un giorno a caso per riproporre al mondo la sua pillola di saggezza: lo fa subito dopo lo sfogo (sempre via Twitter) di Calvin Harris contro l’ex Taylor Swift per il modo in cui lo sta ritraendo nelle interviste dopo la loro rottura. Per esprimere un’opinione, Katy Perry non ha nemmeno dovuto scrivere un parola: le è bastato schiacciare un tasto per aggiungere un nuovo capitolo alla saga che la vede acerrima nemica della Swift. Ai media tradizionali non resta che stare a guardare, perché arriva tutto direttamente dalla fonte.

Quanto poteva valere l’esclusiva del video in cui Kanye West parla al telefono in vivavoce con Taylor Swift e le chiede il permesso di incidere alcuni versi che la riguardano? Eppure la moglie del rapper, Kim Kardashian, non lo vende a nessuno: decide di pubblicarlo da sé, su Snapchat, e solo quando Taylor Swift nega di avere approvato del tutto le liriche in questione. È la vendetta perfetta (Swift, a ragione, parlerà di character assassination), e poteva avvenire solo così: senza filtri e interferenze. Le regole sono cambiate, e con loro i requisiti di una grande comunicatrice.


Pop Topoi

Blogger indipendente che si occupa di interpretare fenomeni e meccanismi della musica pop contemporanea. Ha collaborato, tra gli altri, con Grazia, MTV e Rockol.

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